martedì 6 marzo 2007

Prevenire è meglio che curare – per un completamento della L. 180

Lo scorso gennaio, la Croce Rossa Italiana ha ospitato un convegno promosso dall’A.R.A.P. (la onlus che chiede la riforma dell’assistenza psichiatrica) dal titolo “Disagio minorile – malattia mentale”. Il convegno, sebbene incentrato sulle cause e gli effetti del disagio minorile là dove esso sfocia nei suoi aspetti più drammatici, quelli legati al disagio mentale, aveva il fine di sottoporre ancora una volta all'attenzione dei responsabili della salute pubblica un grave problema che riguarda la cura e il sostegno ai malati psichici e alle loro famiglie.Da trent’anni l’A.R.A.P. cerca di sottoporre all’attenzione pubblica i problemi derivati dalla non compiuta applicazione della legge Basaglia. Come noto, alla fine degli anni ’70, grazie alla Legge 180, venero chiusi i manicomi. Ma la Sanità regionale pubblica ha omesso, in molte parti d’Italia, di prevedere interventi adeguati, nel numero e nelle modalità, a sostegno dei malati e delle loro famiglie, sulle quali si è riversato in moltissimi casi interamente il drammatico (con risvolti, a volte, tragici come testimoniano, purtroppo, le cronache quotidiane) problema della gestione di un malato mentale. Cosa succede infatti, quando un malto è talmente malato da non riconoscere la propria malattia? Succede che rifiuta l’idea stessa di essere malato, e quindi di dover essere curato, e tanto più di venire ricoverato. Giuridicamente non esistono mezzi per obbligare un paziente malato di schizofrenia a curarsi.
Per di più, non esiste un numero adeguato ed equamente distribuito sul territorio di strutture riabilitative adatte e di strategie terapeutiche alternative; quindi solo nei momenti di crisi acuta, su segnalazioni di familiari o cittadini, le forze dell'ordine intervengono per un ricovero coatto in reparti ospedalieri utili solo a fronteggiare, provvisoriamente, temporaneamente, le emergenze.
Il nodo messo in evidenza dall’A.R.A.P. è legato a due contraddizioni: la prima è quella che lascia al malto di mente la libertà di decidere se vuole curarsi o meno (deve essere responsabilità degli psichiatri decidere chi è malato di mente e come va curato, e in questo senso una legge adeguata deve sottrarre gli psichiatri dal consenso di un malato che un vero e proprio consenso non è in grado di darlo); la seconda contraddizione, conseguenza della prima, è che il malato renitente alle cure viene lasciato, in molto casi, totalmente a carico delle famiglie, le quali sono doppiamente impotenti.
Non si tratta, ovviamente, di riaprire i manicomi, anche perché la psichiatria, in merito alle diagnosi e alle cure, ha fatto tali passi avanti che non sarebbe in nessun caso necessario ripristinare luoghi di contenimento “a vita” dei malati mentali. Ma, appunto, tenendo conto dell’evoluzione della scienza, bisognerebbe porsi in ascolto di quanto denunciato da anni dalle famiglie dei malati di mente e farsi suggerire anche da loro il modo di integrare l’applicazione della 180 su tutto il territorio nazionale.
Ora, L’A.R.A.P. su questo ha le idee chiare: quello che viene chiesto è che il malato mentale sia in ogni caso curato. Curato quando e perché sta male e non soltanto quando e perché diventa pericoloso per sé e per gli altri. Ai familiari dei malati di mente non basterebbe neppure che le strutture alternative venissero aumentate di numero, perché la pressi dimostra che esse tornano utili solo là dove (di nuovo) i malati sono collaborativi, facili da gestire. I malati più gravi, i non consenzienti, se non sono gestibili per le famiglie, allo stesso modo non sono gestibili per le strutture (e viceversa!).
Si chiede che venga rivista un po’ tutta la procedura assistenziale psichiatrica. Ad esempio, la revisione della Legge 180 prevedere un momento in cui si offre al malato un pronto soccorso psichiatrico (tramite personale adeguatamente formato) per poi affidarlo a un luogo di degenza e cura di durata adeguata. Sarebbe, in sostanza, uno sdoppiamento dell’attuale Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, in cui la parte di diagnosi e cura dura troppo poco per essere efficace, a parere delle famiglie.
Le cliniche psichiatriche pubbliche in cui i malati vengono trasferiti, poi, devono farsene carico sia se essi sono consenzienti che se non lo sono. Per evitare abusi o prevaricazioni illecite della libertà personale dei malati, è possibile istituire, come in Francia, organismi legali preposti alla loro tutela.
Anche il soggiorno nelle comunità terapeutiche deve poter essere deciso in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Infine, vanno previste residenze protette con assistenza sanitaria e sociale 24 ore su 24, case famiglia in cui al malato venga garantita la continuità del trattamento terapeutico, assistenza psichiatrica domiciliare per coloro che possono essere curati in famiglia.
Insomma, le richieste di riqualificare e l’aggiornamento continuo degli operatori, di garantire lavoro protetto per i malati di mente (che certo non possono lavorare in ambienti conflittuali o competitivi se non con l’adeguato sostegno), di collaborare strettamente con gli operatori sanitari, di sostenere economicamente la ricerca scientifica nelle cliniche universitarie, costituiscono l’insieme di interventi invocati delle famiglie che marcano la differenza e la distanza da qualunque nostalgia per l’istituzione manicomiale.
Le famiglie, in ogni caso, chiedono che venga configurato il reato di omissione di soccorso per quegli psichiatri che dimettono o abbandonano al loro destino gli psicotici gravi e pericolosi.
E’ chiaro che trovare un giusto equilibrio tra il rispetto della libertà di un individuo di accettare di sottoporsi a una cura e l’oggettiva valutazione della sua capacità di intendere e di volere non è facile.
E’ difficile a priori come è difficile a posteriori, e a volte lo vediamo quando si celebrano dei processi. A volte, appunto, vediamo comminare delle pene rese diverse in base all’accertamento dell’infermità o della semi-infermità mentale, accertamento spesso molto problematico.
Questo però non è un problema da poco, è un problema che ha risvolti sociali enormi: ci sono statistiche che dicono che il 20 per cento dei carcerati sono in realtà malati di mente non curati. La malattia mentale sta dietro il bisogno di drogarsi, e quindi dietro i reati che si commettono per procurarsi e procurare le droghe. La malattia mentale sta dietro la mancanza di senso della realtà che può spinger alcuni a commettere truffe, o a indebitarsi, o a pensare di poter vivere fuori dalla legalità. Infine, la malattia mentale sta dietro l’affettività e la socialità malate che spingono a uccidere per risolvere i conflitti. Quindi, dicono le famiglie dei malti di mente riunite nell’A.R.A.P., offrendo a noi tutti spunti di doverosa riflessione, il problema fondamentale e prioritario nel campo dell’assistenza psichiatrica è quello della prevenzione della malattia e dei suoi drammi. Se ne parla solo a tragedie avvenute e poi tutto viene accantonato. Occorre intervenire, invece, alle prime avvisaglie anche in sede scolare, e quindi con maggior efficacia su soggetti ancora giovani. Né si può pensare che, nel futuro, la famiglia, chiaramente in via di disgregazione (già in alcune parti del mondo, un terzo delle neo famiglie si sfascia dopo il primo anno di matrimonio), possa farsi carico di quello di cui si è fatta carico nel passato e nel presente, in merito all’assistenza ai bambini, all’educazione dei giovani e alla cura dei malati e degli anziani.
Se politici e scienziati non lasciano da parte le loro beghe ideologiche e non scendono, onestamente, sul piano pratico, per risolvere i problemi affrontati quotidianamente da circa 2 milioni di persone in Italia, avranno la responsabilità di contribuire al perdurare di situazioni in cui la malattia degenera fino ad arrivare alla cronicizzazione, con conseguenze negative di ogni genere. L’onere per la società diminuirebbe, se si entrasse nell’ordine di idee che tante tragedie potrebbero essere prevenute se la prevenzione fosse veramente attuata.