martedì 6 marzo 2007

Prevenire è meglio che curare – per un completamento della L. 180

Lo scorso gennaio, la Croce Rossa Italiana ha ospitato un convegno promosso dall’A.R.A.P. (la onlus che chiede la riforma dell’assistenza psichiatrica) dal titolo “Disagio minorile – malattia mentale”. Il convegno, sebbene incentrato sulle cause e gli effetti del disagio minorile là dove esso sfocia nei suoi aspetti più drammatici, quelli legati al disagio mentale, aveva il fine di sottoporre ancora una volta all'attenzione dei responsabili della salute pubblica un grave problema che riguarda la cura e il sostegno ai malati psichici e alle loro famiglie.Da trent’anni l’A.R.A.P. cerca di sottoporre all’attenzione pubblica i problemi derivati dalla non compiuta applicazione della legge Basaglia. Come noto, alla fine degli anni ’70, grazie alla Legge 180, venero chiusi i manicomi. Ma la Sanità regionale pubblica ha omesso, in molte parti d’Italia, di prevedere interventi adeguati, nel numero e nelle modalità, a sostegno dei malati e delle loro famiglie, sulle quali si è riversato in moltissimi casi interamente il drammatico (con risvolti, a volte, tragici come testimoniano, purtroppo, le cronache quotidiane) problema della gestione di un malato mentale. Cosa succede infatti, quando un malto è talmente malato da non riconoscere la propria malattia? Succede che rifiuta l’idea stessa di essere malato, e quindi di dover essere curato, e tanto più di venire ricoverato. Giuridicamente non esistono mezzi per obbligare un paziente malato di schizofrenia a curarsi.
Per di più, non esiste un numero adeguato ed equamente distribuito sul territorio di strutture riabilitative adatte e di strategie terapeutiche alternative; quindi solo nei momenti di crisi acuta, su segnalazioni di familiari o cittadini, le forze dell'ordine intervengono per un ricovero coatto in reparti ospedalieri utili solo a fronteggiare, provvisoriamente, temporaneamente, le emergenze.
Il nodo messo in evidenza dall’A.R.A.P. è legato a due contraddizioni: la prima è quella che lascia al malto di mente la libertà di decidere se vuole curarsi o meno (deve essere responsabilità degli psichiatri decidere chi è malato di mente e come va curato, e in questo senso una legge adeguata deve sottrarre gli psichiatri dal consenso di un malato che un vero e proprio consenso non è in grado di darlo); la seconda contraddizione, conseguenza della prima, è che il malato renitente alle cure viene lasciato, in molto casi, totalmente a carico delle famiglie, le quali sono doppiamente impotenti.
Non si tratta, ovviamente, di riaprire i manicomi, anche perché la psichiatria, in merito alle diagnosi e alle cure, ha fatto tali passi avanti che non sarebbe in nessun caso necessario ripristinare luoghi di contenimento “a vita” dei malati mentali. Ma, appunto, tenendo conto dell’evoluzione della scienza, bisognerebbe porsi in ascolto di quanto denunciato da anni dalle famiglie dei malati di mente e farsi suggerire anche da loro il modo di integrare l’applicazione della 180 su tutto il territorio nazionale.
Ora, L’A.R.A.P. su questo ha le idee chiare: quello che viene chiesto è che il malato mentale sia in ogni caso curato. Curato quando e perché sta male e non soltanto quando e perché diventa pericoloso per sé e per gli altri. Ai familiari dei malati di mente non basterebbe neppure che le strutture alternative venissero aumentate di numero, perché la pressi dimostra che esse tornano utili solo là dove (di nuovo) i malati sono collaborativi, facili da gestire. I malati più gravi, i non consenzienti, se non sono gestibili per le famiglie, allo stesso modo non sono gestibili per le strutture (e viceversa!).
Si chiede che venga rivista un po’ tutta la procedura assistenziale psichiatrica. Ad esempio, la revisione della Legge 180 prevedere un momento in cui si offre al malato un pronto soccorso psichiatrico (tramite personale adeguatamente formato) per poi affidarlo a un luogo di degenza e cura di durata adeguata. Sarebbe, in sostanza, uno sdoppiamento dell’attuale Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, in cui la parte di diagnosi e cura dura troppo poco per essere efficace, a parere delle famiglie.
Le cliniche psichiatriche pubbliche in cui i malati vengono trasferiti, poi, devono farsene carico sia se essi sono consenzienti che se non lo sono. Per evitare abusi o prevaricazioni illecite della libertà personale dei malati, è possibile istituire, come in Francia, organismi legali preposti alla loro tutela.
Anche il soggiorno nelle comunità terapeutiche deve poter essere deciso in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Infine, vanno previste residenze protette con assistenza sanitaria e sociale 24 ore su 24, case famiglia in cui al malato venga garantita la continuità del trattamento terapeutico, assistenza psichiatrica domiciliare per coloro che possono essere curati in famiglia.
Insomma, le richieste di riqualificare e l’aggiornamento continuo degli operatori, di garantire lavoro protetto per i malati di mente (che certo non possono lavorare in ambienti conflittuali o competitivi se non con l’adeguato sostegno), di collaborare strettamente con gli operatori sanitari, di sostenere economicamente la ricerca scientifica nelle cliniche universitarie, costituiscono l’insieme di interventi invocati delle famiglie che marcano la differenza e la distanza da qualunque nostalgia per l’istituzione manicomiale.
Le famiglie, in ogni caso, chiedono che venga configurato il reato di omissione di soccorso per quegli psichiatri che dimettono o abbandonano al loro destino gli psicotici gravi e pericolosi.
E’ chiaro che trovare un giusto equilibrio tra il rispetto della libertà di un individuo di accettare di sottoporsi a una cura e l’oggettiva valutazione della sua capacità di intendere e di volere non è facile.
E’ difficile a priori come è difficile a posteriori, e a volte lo vediamo quando si celebrano dei processi. A volte, appunto, vediamo comminare delle pene rese diverse in base all’accertamento dell’infermità o della semi-infermità mentale, accertamento spesso molto problematico.
Questo però non è un problema da poco, è un problema che ha risvolti sociali enormi: ci sono statistiche che dicono che il 20 per cento dei carcerati sono in realtà malati di mente non curati. La malattia mentale sta dietro il bisogno di drogarsi, e quindi dietro i reati che si commettono per procurarsi e procurare le droghe. La malattia mentale sta dietro la mancanza di senso della realtà che può spinger alcuni a commettere truffe, o a indebitarsi, o a pensare di poter vivere fuori dalla legalità. Infine, la malattia mentale sta dietro l’affettività e la socialità malate che spingono a uccidere per risolvere i conflitti. Quindi, dicono le famiglie dei malti di mente riunite nell’A.R.A.P., offrendo a noi tutti spunti di doverosa riflessione, il problema fondamentale e prioritario nel campo dell’assistenza psichiatrica è quello della prevenzione della malattia e dei suoi drammi. Se ne parla solo a tragedie avvenute e poi tutto viene accantonato. Occorre intervenire, invece, alle prime avvisaglie anche in sede scolare, e quindi con maggior efficacia su soggetti ancora giovani. Né si può pensare che, nel futuro, la famiglia, chiaramente in via di disgregazione (già in alcune parti del mondo, un terzo delle neo famiglie si sfascia dopo il primo anno di matrimonio), possa farsi carico di quello di cui si è fatta carico nel passato e nel presente, in merito all’assistenza ai bambini, all’educazione dei giovani e alla cura dei malati e degli anziani.
Se politici e scienziati non lasciano da parte le loro beghe ideologiche e non scendono, onestamente, sul piano pratico, per risolvere i problemi affrontati quotidianamente da circa 2 milioni di persone in Italia, avranno la responsabilità di contribuire al perdurare di situazioni in cui la malattia degenera fino ad arrivare alla cronicizzazione, con conseguenze negative di ogni genere. L’onere per la società diminuirebbe, se si entrasse nell’ordine di idee che tante tragedie potrebbero essere prevenute se la prevenzione fosse veramente attuata.

giovedì 8 febbraio 2007

Diversi con stizza

Parisi, ministro della Difesa, ha giudicato “irrituale” la lettera dei sei ambasciatori Nato agli italiani. D’Alema, dopo essersi caricato con un discorso ai Ds, ha preso carta e penna e ha scritto agli Usa dicendo che considerava la lettere un’ingerenza politica, un modo di mostrare mancanza di rispetto al Governo e al Parlamento italiani. Allora: ok, sono state violate le procedure. Ossia, ne sono state inventate di nuove, perché d’ora in avanti, se gli ambasciatori stranieri in Italia decideranno di nuovo di scrivere al popolo italiano, non si potrà più tanto facilmente starnazzare allo scandalo. Ma circa il contenuto, che ne pensiamo? Perché c’è un po’ questa abitudine di spostare l’attenzione sulla forma quando non si vuole approfondire la sostanza. Ci si scandalizza a tutto spiano se qualcuno fa delle battute di spirito e se qualcuno fa delle affermazioni iperboliche, si replica e si contro-replica esclamando “Inaudito!” e soprattutto: “Si commenta da solo!” che è il commento meno faticoso che esista (il contrario dialettico di “no comment”, del quale, comunque, occorre prendersi la responsabilità), quello preferito da Rutelli. Gli ambasciatori chiedono agli italiani (non potendolo chiedere al governo, il cui orientamento in fatto di politica estera è incerto nel migliore dei casi e anti americano e anti Nato in quello peggiore) di caldeggaire la riconferma della missione in Afganistan, perché non è il caso, adesso, di abbassare la guardia nella lotta contro i Talebani e Al Quaeda. A Parisi e D’Alema non è piaciuto, hanno protestato e gli americani hanno risposto con due argomenti principali: il primo è che ritengono del tutto normale ricorrere alla strategia comunicativa di fatto adottata e quindi non pensano di aver commesso “ingerenze”. Il secondo invece, si può riassumere con la seguente osservazione: non sapete riconoscere gli amici. Forse questa è l’affermazione più vera: infatti, probabilmente, con la loro lettera gli ambasciatori volevano dare al nostro governo l’occasione di dire all’estrema sinistra: vedete in che situazione ci mettete? Invece, la reazione è stata piccata. Forse era un gioco delle parti, per rassicurare la sinistra anti Nato sul fatto che Parisi e D’Alema si preoccupavano soprattutto e a caldo della sua sensibilità, perché a ragionare sui contenuti c’era tempo e poi nessuno (nemmeno gli ambasciatori stranieri) doveva dubitare: a) che Prodi avesse ben saldo in mano il timone della sua maggioranza; b) che con la sinistra estrema si potesse ragionare (perché basta promettere le cose giuste in cambio e tutti i nodi possono sciogliersi, anche le questioni di principio più pure e più dure); c) che D’Alema non sapesse fare il suo mestiere. Ossia, il giocatore su più tavoli. Non è facile per uno cresciuto in un Pci in cui andavano difese sempre e comunque tutte le scelte di politica estera sovietiche imparare a giocare su più tavoli: è un esercizio che richiede il suo tempo e il suo sforzo. E’ una cosa per imparare la quale occorre andare per gradi. Intanto, prima ci si smarca da qualunque posizione preconcetta, non consentendo a nessuna signorina Condy Rice di dare nulla per scontato. Naturalmente, per gli Usa vale lo stesso discorso che – a sinistra - viene fatto per Israele: non ce l’abbiamo con lo Stato, ce l’abbiamo col governo in carica. E allora, se il prossimo presidente americano sarà un democratico (e non un repubblicano) che deciderà, magari perché costretto, a dichiarare la guerra all’Iran, noi saremo a favore della guerra all’Iran? Siamo solo capaci di giocare di rimessa? Anche qui c’è il sospetto che sia più una questione di forma che di sostanza: bisogna marcare la differenza con il governo precedente. Berlusconi andava a trovare Bush e si sentiva talmente a suo agio da avere atteggiamenti - anche lì -”irrituali”: adesso, dobbiamo cambiare la danza, si cambia passo e con gli americani bisogna fare la voce grossa. Anzi, si fa dell’ironia sul fatto che gli americani, poveretti, vanno aiutati soprattutto a riparare agli sbagli che fanno (perché se non facessero niente non sbaglierebbero, come insegna il buon senso popolare); della serie: da te non voglio lezioni, ma sono pronto a dartele in qualsiasi momento. Atteggiamento tipico di chi ha un ego ipertrofico. Non c’è niente di male ad avere un ego ipertrofico se tale ipertrofia è giustificata. Ma attenzione: meglio esercitare sempre il senso del ridicolo preventivamente. Ricordiamoci che quella vecchia volpe di Francesco Cossiga ha soprannominato D’Alema “il nostro Chamberlain”. Chamberlain era quel il ministro degli esteri di Sua Maestà Britannica che sventolò di fronte alle cineprese del cinegiornali di tutto il mondo la lettera che Hitler gli aveva firmato per assicuragli che non avrebbe mai invaso la Polonia. Quindi, a scanso di equivoci, andrebbe elaborata una politica estera comprensibile e coerente, se si vuole comunque agire in alternativa a un’alleanza sancita dalla nostra Repubblica a partire dal dopoguerra. Bisognerebbe, come si diceva un tempo, che qualcuno desse la linea. Bisognerebbe decidere da quale parte si sta anche su altri fronti: cosa si pensa della Cecenia, del problema basco, della permanenza della Gran Bretagna nell’Ulster, dei rapporti tra India e Pakistan, di quelli tra Cina e Tibet, delle infinite guerre africane, delle difficoltà economico politiche che stanno riportando le dittature in Sud America. Non limitarsi a monitorare spasmodicamente solo e soltanto quello che succede a Gaza. Non basta invocare l’intervento dell’Onu né sollecitare tavolate diplomatiche. Ecco: è da questa sensazione di indefinitezza, che bisognerebbe uscire. Mettendo qua e là qualche punto fermo. Magari partendo da due discriminanti irrinunciabili, due parole toste come “libertà” e “democrazia”. Senza considerare questo un atto “politicamente scorretto” in quanto discriminatorio e tale da rendere molto complicato giocare su tutti i tavoli. Perché è questo che succede oggi a sinistra: pur non essendoci più l’ideologia, c’è la presunzione di non sbagliare un colpo, di sapere sempre da che parte sia la giustizia. Ci si affida alla sensibilità: si pensa che qualunque dittatura (da quella di Assad a quella di Chavez) può al limite andar bene purché non sia dichiaratamente nazista e che la democrazia sia pleonastica, se ne può anche fare a meno, l’importante è pensarla in modo diametralmente opposto agli americani. Ma così è troppo facile. Noi italiani è da qualche generazione che andiamo scuola, siamo abbastanza scolarizzati: se mi vuoi convincere che hai ragione, devi dirmi cosa pensi e perché. Non mi bastano gli aggettivi e le reazioni stizzite: voglio tutto il ragionamento.

lunedì 5 febbraio 2007

Malori

In una sua memorabile battuta, Woody Allen aveva fatto dire a un suo personaggio: “Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene”. Quello che faceva ridere, ovviamente, era la non commensurabilità tra Dio, Marx e il personaggio del film ed è altrettanto ovvio che non c’è paragone tra il morire e il non sentitisi tanto bene, ma abbiamo avuto una chiara dimostrazione di quanto ciò si destabilizzante, quando a sentitisi male è una personalità politica del calibro di Silvio Berlusconi.
Ho trovato l’attenzione quasi spasmodica dedicata al malessere che, nel marzo 2006, ha colpito il Presidente di Forza Italia da parte del telegiornale, in diretta, mi è sembrata molto invadente. Un po’ come il volteggio del condor che vuole arrivare per primo alla polpa, alla notizia cospicua, alla morte in diretta, mentre invece si trattava “solo un malore”, come i responsabili della comunicazione di Forza Italia andavano ripetendo. Allora, visto che era solo un malore, il giorno dopo l’humour popolare ha scherzato sulla simulazione, sulla teatralità dell’atto di Berlusconi che, mentre si accasciava mollemente all’indietro, come una diva degli anni del muto, controllava con gli occhi semichiusi l’effetto dell’evento di cui si stava rendendo protagonista sugli astanti. Un tipo di humour che denotava la voglia di esorcizzare un evento temuto.
Perché poi si è arrivati a discutere di quello che realmente inquietava tutti: che succederebbe se Berlusconi non ci fosse più, ossia dovesse abbandonare la politica per motivi di salute? Il vignettista Vincino ritraeva allora un Prodi che pregava Silvio di resistere, o lui sarebbe crollato. Mirabile sintesi: se il popolo della destra perdesse il suo leader unico e insostituibile, il centrosinistra resterebbe compatto? Certo che no. Ma il centrodestra stesso sta mettendo in discussione la leadership di Berlusconi. Lo vediamo benissimo: Casini vuole smarcarsi e mira a costituire un centro alternativo al centrodestra, Fini aspira al delfinato del centrodestra ed probabilmente è più presentabile di Bossi (anche lui malato e insostituibile) ma certo non potrà mai godere della stessa popolarità di chi si è messo, lui, in prima persona, come “politico nuovo” a capo di un “popolo nuovo”. E’ chiaro che molta parte di chi vota Forza Italia vota Berlusconi, perché quando il Cavaliere personalmente non si presenta o non scende in campo (lo abbiamo visto alle recenti elezioni locali) il suo partito patisce, perde consensi. Nella storia della politica delle facce che hanno preso il posto degli apparti di partito, Berlusconi è un ulteriore passo rispetto a Craxi. Craxi mise la sua faccia e il suo carisma trascinante a servizio di un partito dal passato glorioso ma in calo di consensi e li recuperò a sinistra e nel centrosinistra laico, portando il vecchio partito di Nenni oltre il 10 per cento. Poi la magistratura aprì la stagione di Mani Pulite e sappiamo com’è andata a finire: Craxi se n’è andato in Tunisia, e le ultime immagini ce lo mostrano esiliato e molto malato, col diabete che gli stava demolendo gli arti inferiori. Il Psi non si è mai ripreso, il craxismo è morto, ma è sceso in campo Berlusconi e la palla della politica italiana ha continuato a rotolare.
Il malore di Berlusconi ci ha ricordato che i nostri leader (a differenza dei segretari del partito comunista sovietico, che venivano imbalsamati anche in vita e tenuti in piedi ad assistere alle parate militari nonostante l’evidente rigor mortis) non solo non mortali, ma a volte possono sentirsi non tanto bene. E allora, che succederà? Siamo in grado di fare qualcosa? La sinistra chiede un nuovo leader perché altrimenti sa che se non sarà più unita nell’”anti qualcuno”, si smembrerà in tanti pezzi. Ma c’è un “altro leader”? C’è un prossimo Craxi, un prossimo Berlusconi, qualcuno che possa compattare la destra “pro” e la sinistra “contro” di sé? In mancanza di costui, perderebbe senso anche il bipolarismo. I partitini nati per fare l’ago della bilancia, le micro alleanze elettorali che poi non reggono alla prova dei fatti… tutte cose da rivedere. E’ veramente arrivata l’ora di eliminare tutta questa suspence dando vita a un terzo schieramento moderato e laico che assicuri la stabilità futura.

Vodafone versus Telecom

Nel luglio 2006 abbiamo assistito a uno scontro frontale tra Vodafone Italia (che però è governata da Londra) e Telecom, operatori telefonici protagonisti di una battaglia che va oltre la sfida sul piano industriale del marketing edelle offerte commerciali e si sposta sulle carte bollate. Una battaglia in nome della concorrenza che ha il sapore dello scontro vero. Mai, in passato, aveva sfiorato picchi di asprezza come quelli raggiunti nel momento del deposito (nei giorni scorsi) dell'atto di citazione con il quale Vodafone Italia denuncia Telecom per "abuso di posizione dominante", per "illecito sfruttamento delle informazioni privilegiate contenute in qualità di gestore della telefonia fissa per 'schedare' i clienti (anche, e soprattutto, quelli delle aziende concorrenti) e proporre offerte mirate". Per l'impiego di "informazioni strategiche riguardanti le attività di telefonia fissa per competere nel mercato del mobile". Per “aver promesso sconti sui servizi di telefonia fissa, per sottrarre clienti a Vodafone nel mercato del mobile”. Dito puntato soprattutto alle offerte combinate fisso mobile e l'utilizzo “commerciale “ del 187. Secondo i legali di Vodafone i danni stimati ammonterebbero a 525 milioni di euro.
La richiesta di queste misure, ha sottolineato Vodafone nel comunicare la notizia della richeista di risarcimento, nasce dall’esigenza di porre fine all’anomala situazione – unica nel suo genere in Europa – posta in essere in seguito alla fusione tra Telecom e la divisione mobile TIM. La fusione, spiega ancora Vodafone, ha permesso a Telecom di disporre di informazioni privilegiate sulle abitudini di consumo dei 24 milioni di clienti di rete fissa ignote ai concorrenti di telefonia mobile e, di conseguenza, ha consentito all’ex monopolista – che ancora oggi controlla l’80 per cento del mercato fisso e il 95 per cento della banda larga – di offrire promozioni mirate dei servizi TIM, volte a sottrarre clienti alla concorrenza. La stessa Corte alla quale si è rivolta Vodafone, aveva già condannato Telecom in una causa contro Fastweb per pratiche abusive sull'utilizzo di informazioni per attività di recupero clienti. Su questo fronte, Telecom si è difesa presentando al Tar un ricorso contro l'Autorità per le garanzie nella comunicazione chiedendo di annullare la delibera in cui l'Autorità si è pronunciata a favore di Fastweb. Se il Tar convocasse tutti gli abbonati Fastweb a testimoniare, ne sentirebbe delle belle sul comportamento di Telecom, ma ne sentirebbe delle belle anche sul conto di Fastweb, la quale - per non soccombere alla concorrenza sleale di Telecom, che è un fatto - continua a promettere ai consumatori cose (come il collegamento con la fibra ottica) che non può mantenere (perché di fatto non lo mantiene, subordinandolo a condizioni che sono al di fuori del controllo degli utenti - tipo il collegamento di intere palazzine, perché un solo cliente in una palazzina non basta: ma questo il cliente lo scopre dopo aver firmato il contratto con Fastweb, e intanto paga come se il collegamento a fibra ottica l'avesse ottenuto); ma non solo: anche la velocità del collegamento ADSL di Fastweb è subordinato alla qualità della linea fissa di Telecom la quale consente una velocità di scaricamento a varie velocità, a seconda della qualità della linea (se è più vecchia, se è più nuova). Si passa dai 2 mega bit al secondo a 6 mega bit al secondo. Ora, è da verificare, naturalmente, ma l'impressione è che Telecom non intenda mettere tutti i suoi ex clienti in condizioni di scaricare alla massima velocità a meno che si accetti un compromesso, come quello offerto da una speciale tariffa Fastweb che consente alla Telecom di continuare a percepire il canone: in quel caso, l'up grading della linea fissa a 6 Mbit/s è assicurata (ma chi crede più?).
Se sei passato a Fastweb avendo una linea da 6 mega bit al secondo, anche se non hai la fibra ottica, paghi per un servizio ottimale; se invece, la tua linea è una vecchia linea e viaggi a 2 mega bit al secondo, lì resti. E in effetti, è un po' laborioso, per un semplice cliente/consumatore, mettersi a fare causa a Telecom per concorrenza sleale e a Fatweb per aver fatto promesse che non poteva fare. Ma tanti consumatori insieme possono fare la differenza.

Questo illustrato fin qui non è che uno dei tanti esempi italiani in cui alle privatizzazioni non sono seguite le dovute liberalizzazioni, e gli incauti stranieri (come Vodafone), che invece sono abituati alla libera e corretta concorrenza, una volta entrati nel nostro mercato, si trovano in difficoltà.
E questa lotta avrebbe maggiore senso se la "lobby delle lobby", la lobby dei consumatori, battesse un colpo e non solo applaudisse alla battaglia di Vodafone, ma si facesse parte attiva nella medesima. Non perché la Vodafone è la Vodafone, ma per affermare un principio.
Perché, nel capitalismo moderno, i veri "stakeholder" sono i consumatori, solo che essi devono assolutamente prendere coscienza dei loro diritti/poteri, come fecero gli operai a suo tempo. Cioè i vincitori della lotta per una vera libera concorrenza non sono solo le imprese, che raggiungono finalmente le pari opportunità di agire sui mercati, ma soprattutto i consumatori (nella loro duplice veste di produttori di beni e destinatari degli stessi, parallelamente al fatto che - sempre loro - sono i finanziatori dello Stato e i fruitori dei suoi servizi), che smetterebbero di pagare sistematicamente per il fallimento delle operazioni di privatizzazione senza liberalizzazione.

Parafrasando Shakespeare

Quando, a giugno 2006, Nicola Rossi fece una proposta semplicissima e praticamente indolore per cercare di diminuire la spesa pubblica (e dare quindi un minimo di dignità e credibilità a una finanziaria che aumentava le tasse) ebbe immediatamente il plauso di Francesco Gavazzi, che si congratulò con lui dalle pagine del Corriere, uno dei grandi sponsor (pentito?) di questo governo. Infatti, Rossi proponeva semplicemente di mandare in pensione anticipata 100 mila dipendenti pubblici (su tre milioni e mezzo di persone) e sostituirne due su dieci con nuovi assunti giovani. Motivazione: poiché una pensione costa allo Stato il 65 per cento del salario di un dipendente pubblico, si sarebbe risparmiato sia se gli assunti fossero stati tre su dieci che seci fosse stato un solo nuovo assunto, ma tanto bravo da dover essere pagato il doppio. Non si può mandare forzatamente in pensione un dipendente pubblico (anche se lo stipendio, di fatto, lo ruba, anche se sta lì a scaldare il banco e in trent’anni di lavoro non ha neanche imparato a usare il computer – basta a farsi un giretto in qualche uffici pubblico e se ne trovano quanti se ne vuole di “lavoratori” del genere, soprattutto tra gli oramai dirigenti, assunti con concorsi che non chiedevano neanche di saper scrivere a macchina perché allora si dettava alle segretarie) ma, visto il risparmio e la spirale virtuosa che il meccanismo indicato da Rossi innescava, si potevano ben studiare degli incentivi per motivare 100 mila o più dipendenti pubblici a accettare il pensionamento. O comunque si poteva dare a Rossi la possibilità di realizzare questa sua idea semplice e rivoluzionaria (le vere idee sono tutte semplice e rivoluzionarie) se non altro dandogli un posto al governo. Invece Rossi non è stato incluso nella compagine di governo. Così, varata la finanziaria, ha affidato alle pagine dell’ultimo numero del 2006 della rivista “il Mulino” il suo grido di dolore, intitolato “L’inverno del nostro scontento”. Parafrasando Shakespeare. E se lo può permettere perché scrive veramente bene, Nicola Rossi. E poi, pochi giorni fa, è uscito da Ds. Un altro riformista che lascia il partito di D’Alema.
Insomma, in che consiste il suo grido di dolore? La finanziaria 2007 non ha una mission (“la mission è una dichiarazione di intenti a cui ci si ispira per definire i propri obiettivi e successivamente la strategia, con particolare riguardo al proprio posizionamento, definendo di conseguenza la propria impostazione strategica, ecc….”). “Non contiene un’immagine del futuro che renda accettabili i sacrifici attuali e che dia loro un senso compiuto” (ve l’avevo detto che Rossi sa scrivere). Facile, diciamo noi, basta farlo apposta. Basta non mettercela, questa immagine del futuro. E’ il segreto di chi naviga a vista, e D’Alema, che va in barca a vela, lo sa molto bene. Basta non mettercela, perché visto che l’immagine del futuro di Rutelli, D’Alema, Mastella, Diliberto, ecc. non coincide, non la si poteva mettere nella finanziaria. La quale quindi, priva di mission, rimane solo con uno scopo: quello di fare cassa per non dover fare le riforme e per non tagliare la spesa pubblica. Fare cassa per distribuire il denaro prelevato dalle tasche degli italiani per compensare in tutti i modi possibili il nocciolo duro di chi garantisce i voti alla sinistra. Come, ad esempio, gli insegnanti della scuola pubblica. Cos’è infatti una delle prime cose che ha fatto Fioroni? Ripristinare le commissioni esterne dell’esame di maturità. Invece di tendere all’Europa, abolendo del tutto il valore legale dell’esame di maturità (e anche dei titoli intermedi: ho conosciuto un rumeno il quale, nonostante avesse frequentato liceo e università e conoscesse quattro lingue, lavorava in un cantiere edile perché i suoi titoli di studio in Italia lo facevano equivalere a un analfabeta: per quanto tempo ancora pensiamo di andare avanti con questi trucchetti?), ha ripristinato questo obolo patetico che la Moratti aveva tentato di eliminare. Ma gli insegnanti pubblici, terrorizzati dalla Moratti, determinanti per la vittoria di Prodi, andavano ricompensati. E tanto paghiamo noi, mica pagano Prodi o Fioroni. E poi i ladri sono gli evasori fiscali. E su questo, proprio su questo, Nicola Rossi diventa il nostro eroe: “Tanto il mancato rispetto degli obblighi fiscali e contributivi quanto la mancata o parziale fornitura dei servizi pubblici dovrebbero essere considerati – com’è implicito nel dettato costituzionale – come gravi violazioni del patto su cui si regge una comunità e come tali contrastati e perseguiti senza eccezione”, scrive. Contrastati e perseguiti. Perché violano la Costituzione. Ma chi li dovrebbe contrastare e punire? Appunto, ci vorrebbe qualcuno che stabilisse parametri, violazioni, sanzioni. Cioè qualcuno che facesse le riforme, chiamando tutti alle proprie responsabilità. Non è che si può andare dal magistrato ogni volta che arriva una multa sbagliata: se cominciamo a farli pagare quando sbagliano, le multe sbagliate non arriveranno più. I dipendenti pubblici, che campano con i soldi delle tasse di chi lavora, dovrebbero essere valutabili (altro problema che da Bassanini a Frattini in poi non è mai stato risolto): se lavorano bene, quei soldi glieli diamo volentieri, ma se lavorano male, vogliamo che vadano a casa. Non ha senso che, in un mondo lavorativo massicciamente basato sul precariato, resistano delle categorie protette, inamovibili e tanto numerose (tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici e famiglie, più tutto l’indotto sindacale e famiglie) da poter decidere chi va al governo chiedendogli, poi, di conservare la situazione esistente, che conviene solo a loro. Sennò, poi bisogna ricominciare a riflettere su “cosa” sia il conflitto di interessi.

La malinconia di Zidane, ermeneutica di un gesto inconsulto

Che altro bisognerà inventarsi per risarcire Zidane del fatto che l’Italia vinto il Mondiale di calcio? Nei primi giorni del 2007, in Svizzera, oltre al premio per il terzo posto tra i migliori giocatori del mondo attribuito dagli allenatori, gli è stato consegnato un premio come miglior giocatore del Mondiale. Ma come, hanno giustamente osservare sul Corriere, “il premio per il miglior giocatore del Mondiale lo vince uno espulso per una testata al petto dell’avversario?”. E allora ecco un’intervista, sempre dell’inviato del Corriere, in cui si inizia a parlare di questo premio, evidente coronamento dell’addio definitivo di Zidane al calcio, per arrivare – per forza, non se ne poteva fare a meno – a interrogarlo sull’argomento cruciale; e così, alla domanda: “Materazzi sostiene che le ha chiesto più volte di fare la pace e lei rifiuta”, Zidane risponde: “Io non lo conosco. Non so chi è. Non l’ho mai frequentato”, ecc.
Da una persona matura, da un uomo con tutti i suoi attributi, uno si sarebbe aspettato un minimo di autocritica. Di tempo ce n’è stato. Una persona che desidera acquisire una dimensione morale (o recuperare una dimensione morale perduta) avrebbe potuto, nel frattempo, dire: “Mi dispiace, ho perso la testa, ero stanco, ero frustrato perché non riuscivo a segnare…”. Non so, poteva buttarla sul piano calcistico. Invece Zidane continua a sostenere di essere stato provocato (ma Materazzi potrebbe dire la stessa cosa) come se questo giustificasse qualunque gesto, per poi arrivare all’affermazione estrema: la negazione dell’esistenza di Materazzi. Lui Materazzi non lo consce, e quindi lo può anche prendere a testate sullo sterno in mondovisione. Chapeau.
Bisogna ricordare, per correttezza, che questa sorta di corsa al risarcimento di Zidane è stata preceduta da una posizione molto dura, a caldo, del quotidiano sportivo francese l’Equipe, che lo aveva molto rimproverato per il suo gesto. Poi, è partita, dai professionisti del politicamente corretto, la segnalazione del rischio di “razzismo”. Infatti. Zidane è algerino, in figlio dell’Islam. E siccome noi occidentali, notoriamente, abbiamo perso il senso dei veri valori (e meno male che ogni tanto c’è qualche Zinedine Zidane che ce lo ricorda) non ci rendiamo conto dell’effetto devastante che le parole di Materazzi, qualunque esse siano state, possono aver avuto nell’intimo dell’animo del calciatore francese. Perfetto. Ognuno ha le sue priorità. E su questo possiamo discutere all’infinito. Quello, però, che forse il pubblico italiano ancora non sa è che “La malinconia di Zidane” è stata oggetto di un libricino di 16 pagine, scritto da Jean-Philippe Toussaint, pubblicato dalle Editions de minuti, in cui si scomodano categorie elevatissime per descrivere e spiegare l’accaduto. Innanzitutto, la letteratura e la pittura: “Zidane guardava il cielo di Berlino senza pensare a nulla, un cielo bianco con sfumature di grigio dai riflessi bluastri, uno di quei cieli di vento immensi e cangianti della pittura fiamminga, Zidane guardava il cielo di Berlino sullo stadio olimpico la sera del 9 luglio del 2006, e provava con un’intensità pungente il sentimento di esserci, semplicemente di esserci, nello stadi olimpico di Berlino, in quel momento preciso del tempo, la sera della finale della Coppa del mondo di calcio”. Sembra una presa in giro? Andiamo avanti. Il gesto di Zidane è tutt’altro che banale, secondo Toussaint, perché “ha avuto la subitaneità e lo svolgimento di un gesto calligrafico. Se sono bastati pochi secondi per compierlo, non ha potuto avvenire che al termine di un lento processo di maturazione, di una lunga genesi invisibile e segreta”. Un gesto che va al di là del ben e del male. E quindi, l’altra categoria scomodata per descrivere la melanconia di Zidane, è, comprensibilmente, la psichiatria: “la malinconia di Zidane è la mia malinconia, la conosco, l’ho nutrita e la provo. Il mondo diviene opaco, le membra sono pesanti, le ore appaiono appesantite, sembrano più lunghe, più lente, interminabili”. Bella descrizione della presa di coscienza di uno stato depressivo. Poi, si ricorre alla psicanalisi: “Zidane, d’altra parte, non ha mai smesso di manifestare la sua stanchezza in modo inconscio, con la fascia da capitano che non smetteva mai di cadere, la sua fascia che calava e che lui continuava a riposizionare in modo maldestro sul braccio”. Altra categoria, immancabile: l’estetica. “La forma gli resiste. E ciò è inaccettabile per un artista, conosciamo i nessi intimi che legano l’arte alla melanconia”. Già, li conosciamo dal Romanticismo. E quindi, Zidane, secondo Toussaint, sposta il problema: “Incapace di segnare un gol, segnerà gli animi”. Bello, bellissimo.
Ma non è finita: ecco l’ultima categoria: il surrealismo, il ricorso alla filosofia presocratica. Toussaint tira fuori il paradosso di Zenone e lo riadatta a Zidane. Il colpo di testa di Zidane non è mai avvenuto, perché la sua testa non ha mai raggiunto il petto di Materazzi. Esattamente cometa freccia di Zenone non ha mai raggiunto il bersaglio. Insomma: magari. Magari: ci saremmo risparmiati fiumi di inchiostro per commentare quello che è solo un gesto inconsulto di un figlio ingrato che la Francia dei lumi non è riuscita a illuminare, e tutte le recriminazioni che sono seguite – a parte quella ironica e genialoide di Toussaint – sono state un modo in cui i Francesi rivelano il loro ingiustificato senso di superiorità nei confronti degli italiani. La verità vera – che si percepiva parlando con loro nei giorni immediatamente successivi alla nostra vittoria – era proprio che non sopportavano di esser stati battuti proprio da noi.
Ben altri fiumi di inchiostro, questi sì giustificati, ha fatto scrivere un gesto dialetticamente opposto a questo. Un “colpo fantasma”, che ci doveva essere e non c’è stato. Quello che Cassius Clay ha sferrato al volto di Sonny Liston, mettendolo KO e conquistando il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. Che generazioni di spettatori collegati anche loro in mondovisione, giurano che non c’è stato. E che se anche ci fosse stato, non avrebbe mai potuto abbattere Sonny. Eravamo nel 1964. E lì il mistero era veramente fitto, perché per anni si disse che era stata la mafia, che aveva il monopolio delle scommesse nel mondo della boxe, a ricattare Liston e a imporgli di simulare la sconfitta. Poi si è scritto che erano stati i Mussulmani neri a truccare l’incontro perché avevano bisogno di un eroe, Mohamed Alì, appunto. E non si è mai saputo neanche come è morto Liston, nel fiore degli anni, ammazzato chissà da chi, chissà perché, chissà cosa non doveva poter mai più dire. Questa è una vera storia, una storia per scrittori veri, altro che la maleducazione camuffata da dramma esistenziale del signor Zidane.

Volontariato: è boom soprattutto al centro-sud

E' stata presentata nel marzo 2006, a Roma, dall'Osservatorio Nazionale del Volontariato (ministero del Welfare), nella Sala del Refettorio di Palazzo S. Macuto a Roma, la sintesi del "Rapporto Biennale del volontariato - anno 2005" in cui sono esposte, con dovizia di dati, le trasformazioni nel mondo del volontariato - così come sono state recepite dall'Istat e dalla Fivol (Fondazione italiana per il volontariato) - sul ruolo, funzione e stato dell'arte del rapporto tra Volontariato ed Enti Locali accompagnate dalla riflessione sul nuovo volto del volontariato italiano e sulla riforma della legge quadro sul Volontariato (L. 11 agosto 1991, n. 266). Il Rapporto ci dice che è boom per il volontariato e l'associazionismo in Italia, ma ciò che stupisce è che, per una volta, è proprio il Centro-Sud d'Italia a mostrare il maggior dinamismo sociale, e questo mentre il cosiddetto Terzo Settore, con i suoi 12 mila dipendenti, prende sempre più corpo anche come realtà lavorativa. Insomma, il volontariato costituisce una realtà ''in salute" che agisce prevalentemente del settore della sanità, dei servizi sociali ma anche nelle realtà ricreative o della Protezione civile.
Dalla prima rilevazione effettuata nel 1995 alla più recente, diffusa dall'Istat nell'autunno 2005 e riferita al 2003 (sotto il titolo “Statistiche in breve”su “Le organizzazioni di volontariato in Italia. Anno 2003”), l'incremento del numero delle associazioni è stato del 152 per cento mentre; come sottolinea il Rapporto, dunque, in valori assoluti si è passati da 8.343 a 21.021 unità. La composizione territoriale vede il 28,5 per cento delle organizzazioni al Nord-ovest; il 31,5 per cento nel Nord-est; il 19,3 per cento al centro e il 20,7 per cento nel Sud e Isole. La maggiore crescita (più 300 per cento) si registra proprio in Sicilia, Molise, Campania, nelle province di Trento e Bolzano, in Basilicata e nelle Marche. La minore (circa 75 per cento) in Toscana, regione che risultava già insieme a Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, nella top ten per numero di organizzazioni. Notevole, si evince sempre dal Rapporto, anche il peso del volontariato come ''datore di lavoro". Nel 2003 sono stati, infatti, circa 12 mila i dipendenti e 826 mila i volontari, con una crescita dei primi del 77 per cento e dei secondi del 71,4 per cento con una maggior crescita proprio nel Mezzogiorno. Più della metà dei volontari è risultata essere occupata (52,2 per cento), il 29,5 per cento di chi fa volontariato è, invece, pensionato, il 18,3 per cento comprende una categoria composita fatta di studenti, casalinghe, disoccupati e persone in cerca di prima occupazione. Tanti anche i laureati (12,4 per cento) mentre i diplomati risultano essere il 44,4 per cento. I settori di attività prevalenti sono ancora la sanità (28 per cento) e l'assistenza sociale (27,8 per cento), che tuttavia decrescono (meno 14,4 per cento la sanità e meno 2,7 per cento l'assistenza sociale), a favore della ricreazione e cultura, protezione civile e protezione dell'ambiente che passano rispettivamente dall'11,4 per cento al 14,6 per cento, dal 6,4 per cento al 9,6 per cento e dal 2,2 per cento al 4,4 per cento. I servizi più diffusi sono quelli dell'ascolto, sostegno e assistenza morale (19,9 per cento) e donazione di sangue (17,4 per cento), ma anche servizi ricreativi (14,5 per cento) accompagnamento e inserimento sociale (13 per cento), realizzazione di corsi tematici (12,9 per cento), l'organizzazione di spettacoli (12,6 per cento) le campagne di informazione (11,8 per cento) l'assistenza domiciliare (11,8 per cento), il trasporto di anziani e disabili (11,4 per cento), le esercitazioni di protezione civile (11,3 per cento) e le prestazioni di soccorso e trasporto malati (10,7 per cento). Gli utenti passano, invece, dai 2,5 milioni del 1997 a 6,8 milioni del 2003. Il totale delle entrate passa da 675 milioni di euro del 1997 a 1630 milioni del 2003. Cresce il ricorso al finanziamento di origine privata. Nel 2003 il 29,8 per cento delle associazioni si finanzia esclusivamente con entrate di fonte privata (era il 24,9 per cento nel '97), il 35,1 con risorse di origine prevalentemente privata (33,7 per cento nel '97), il 29,9 per cento con entrate prevalentemente pubbliche (35,8 per cento nel '97), il 5,2 per cento con risorse esclusivamente pubbliche contro il 5,7 per cento del 1997. A parlare di ''trend dinamico e un saldo positivo" del volontariato in Italia è stato Renato Frisanco, responsabile studi e ricerche Fivol e componente dell'Osservatorio nazionale per il volontariato. ''In particolar modo dal Rapporto emerge come - ha sottolineato - aumenti la capacità operativa, il numero dei beneficiari, la sinergia con altri soggetti privati e, soprattutto, pubblici, le entrate di cui dispongono, gli interventi e le prestazioni che realizzano, con una propensione alla progettazione e alla specializzazione più che all'agire sulla base delle emergenze". Secondo il sottosegretario Grazia Sestini, ''i dati evidenziati in questo rapporto, con la crescita del volontariato registrata, sia nei numeri che sotto il profilo dei servizi offerti, riconferma un dato che abbiamo sempre sottolineato, quello del valore rappresentato dal volontariato non solo sotto il profilo sociale ma anche in termini di ricchezza per il Paese, e che trova concreta e peculiare applicazione in due misure introdotte dal Governo nell'ultimo anno: la 'piu' dai e meno versi' e il 5 per mille''.



Prodi e il Corriere


Chissà a quale centrosinistra pensava Paolo Mieli quando, dalle colonne del Corriere, pochi giorni prima del voto, ha auspicato la vittoria di Romano Prodi. Sicuramente non si aspettava che la vittoria risultasse poi così risicata e forse aveva nella sua testa altra gente, visto che ora i suoi colleghi editorialisti e fondisti del quotidiano di Via Solferino stanno cercando, quotidianamente quanto inutilmente, da giorni di richiamare la coalizione unionista alla realtà.
Il primo risveglio l'aveva avuto Giovanni Sartori, ottantaduenne libero docente in Storia della Filosofia Moderna e in Dottrina dello Stato, che aveva scritto il 20 aprile scorso, un articolo in prima pagina dal titolo "Il bipolarismo frainteso" per riaffermare che il nostro è ancora un sistema parlamentare. In risposta a Prodi, che sosteneva di poter governare per cinque anni perché la legge glielo consente, Sartori osservava: "Certo, la legge glielo permette: ma i numeri (i seggi di cui dispone) no".
A prescindere dalla valutazione dell'esito fatta in base ai vincitori e ai vinti (Prodi ha vinto ma Berlusconi non ha perso, ecc.) il punto, secondo Sartori, è che "questa elezione è la più 'indecisiva', la peggiore nei suoi esiti di quante ne possiamo ricordare". Se pensiamo agli esiti delle elezioni dal '94 in poi questa non è un'affermazione da poco. Nel '94 la sinistra ha perso, ma il primo governo Berlusconi è stato affossato dalla Lega. Nel '96 Prodi è riuscito a governare grazie ai voti dell'opposizione sulla politica estera, altrimenti Bertinotti lo avrebbe fatto cadere. Poi c'è stata l'elezione del 2001 che ha inaugurato e rafforzato lo scontro di civiltà, il solco tra i buoni e i cattivi, a colpi di leggi considerate ad personam invece che di leggi utili al Paese. Poteva essere la vittoria morale dei bipolaristi: l'Italia si divide in due blocchi contrapposti di nemici irriducibili e chi vince governa con i premi di maggioranza. Ma ecco che il già imperfetto mattarellum (che manteneva la quota di proporzionale per cui i partiti, invece di unirsi in due blocchi unici monolitici, si sono frazionati al loro interno fino all'inverosimile) è stato sostituito dal proporzionellum che ha parzialmente eliminato i premi di maggioranza e ha sancito il testa a testa. Da dove può venire la salvezza, secondo Sartori? Dal fatto che "il nostro è ancora un sistema parlamentare nel quale e per il quale le linee di divisione non possono essere rigide ma devono essere, occorrendo, flessibili". Occorrendo.
Una settimana dopo Paolo Franchi rilevava il silenzio di un Prodi in difficoltà, "in apnea" per il timore che alla presidenza del Senato venisse eletto Andreotti, candidato del centrodestra e che al suo governo venisse a mancare l'appoggio di una delle Camere. Lo immaginava immerso in trattative e mediazioni, altro che cantare vittoria.
Il 29 aprile in 32esima pagina, Piero Ostellino ne rivelava una, di queste trattative: Prodi stava consultando le correnti della magistratura prima di nominare il nuovo Guardiasigilli. Commento di Ostellino "A me pare che, nel disperato tentativo di formare un governo col bilancino del farmacista che accontenti non solo tutti i partiti della sua coalizione, ma anche i gruppi di interesse e di pressione esterni al Parlamento e regga alla prova con una maggioranza tanto risicata al Senato, egli si sita mettendo su una cattiva strada". Questa trattativa rischiava di gettare "un ombra" (e che ombra!) sull'operato di Prodi, portandolo "fuori dalle regole di una democrazia parlamentare qual è la nostra".
Fin qui sembra quasi che il Corriere dall'alto dei suoi esperti politologi, stia cercando di mantenere il proprio candidato alla Presidenza del consiglio, Prodi, sotto tutela, avvertendolo lì dove il suo caparbio attaccamento a una vittoria semi inutile rischia di portarlo del tutto fuori strada.
Ma Prodi sembra essere convinto che, mediando e trattando, si possa cambiare la realtà, rovesciandola a proprio favore. Si considera irresistibile: se lui insiste abbastanza la realtà prima o poi cederà e gli darà ragione.

Sempre il 29 aprile di nuovo Paolo Franchi in prima pagina su Palazzo Madama, il centrosinistra e Prodi con un articolo dal titolo "Un sentiero strettissimo" ribadisce che non si può esultare di fronte al modo con cui Franco Marini è stato eletto Presidente del Senato (non in modo compatto alla prima votazione ma con un iter accidentato) "Non è affatto escluso che in questo o in qualche altro analogo esercizio di Realpolitik verbale alla fine, effettivamente, il centro sinistra si produca, salutando la ritrovata unità. Ma sarebbe un errore grave. Anzi catastrofico. Perché la realtà, anche quando è dura, bisogna guardarla in faccia". E la realtà è che il centrosinistra è diviso e ha pochissime chance di governare e deve "cambiare subito strada" ma aggiunge, "sempre che sia in grado di farlo". Accipicchia, verrebbe da dire: hanno perso il senso della realtà, non sono in grado di cambiare rotta, finisce che vanno a sbattere.
E allora ecco Sergio Romano sulla prima pagina del Corriere del 30 aprile con un articolo dal titolo "Baldanza e realismo" che cerca di dare una direzione. Romano definisce "pessimo" lo spettacolo offerto dalla votazione del presidente del Senato e sembra seccato per il modo in cui il centrosinistra ha preteso di attribuirsi entrambi i Presidenti delle Camere. Anche per Romano, che non simpatizza particolarmente per il centrosinistra e viene dalla Diplomazia, "Non basta dire 'governeremo per cinque anni' perché l'auspicio si realizzi" e invece di gioire per la nomina di Franco Marini bisognerebbe interrogarsi sul significato degli intoppi creati dai franceschi tiratori: chi sono, che vogliono in cambio, per quanto intendono andare avanti così? Romano suggerisce al centrosinistra di essere realista: che Prodi distingua quali sono gli ambiti irrinunciabili per il suo governo (economia, fisco, lavoro, rapporti con l'Europa) e lasci che gli altri ambiti diventino elementi di trattativa con l'opposizione.
Del resto - avverte Romano - con un centrodestra incattivito, sarà difficile per il centrosinistra eleggere un suo Presidente della Repubblica e anche vincere il referendum confermativo per la riforma costituzionale varata dal governo Berlusconi anche perché, per Romano, questa non è del tutto da buttar via. Insomma conclude Romano "un accordo migliorerebbe il clima". Insomma o Mieli prima della sua sortita non si è consultato con i suoi collaboratori o il Corriere deve essersi già pentito di aver caldeggiato la vittoria di Prodi.
Intanto il Professore gongola, sorride estasiato, dice ai suoi "abbiamo segnato due goal". Cioè, il Corriere proprio non lo legge.

eutanasia e dintorni

Certe volte viene da pensare che non deve essere facile sostenere l’insostenibile anche a costo di contraddirsi, come fanno, persuasi di essere coerenti, i cattolici a oltranza. Prendo spunto dalla vicenda di Piergiorgio Welby, che chiede di poter mettere fine legalmente alla propria vita, che continua – per dirla con le sue parole - solo grazie a un “testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”. E quindi non è vita, ma sopravvivenza di un organismo biologico senza futuro né speranza, durata senza partecipazione morale, senza consenso. E’ evidente che chi si rifiuta di discutere sull’opportunità di accogliere la domanda di Welby rivolta al presidente Napolitano lo fa per ribadire ciecamente un principio: la vita è sacra. Per questa ideologia, la vita, in quanto sacra, non appartiene al vivente, ma lo trascende. Il fatto è che le scelte morali e quindi l’osservanza dei dettami fideistici devono essere atti coscienti di libero arbitrio del singolo credente, oppure non hanno valore. E quindi: come la mettiamo? Se il fedele, tra le tante possibilità che la vita gli offre, sceglie di seguire attentamente i dettami della sua religione, le sue scelte hanno un valore che può anche configurarsi come “eroico”. Se la scelta invece è obbligata per tutti, indistintamente, dov’è la superiorità del credente rispetto al non credente? Cioè, sembra assurdo doverlo ancora ripetere, ma come si fa ancora a pensare che la vita civile italiana debba essere modellata sui dettami della Chiesa cattolica? Comunque, prendiamo atto c’è chi non vuole sentir parlar e di eutanasia, non vuole sentir parlare di sperimentazione sulle cellule staminali, non vuole sentir parlare di aborto; costoro dovrebbero rendersi conto intanto che la scienza – se lasciata in pace – riesce a risolvere i problemi etici/religiosi (perché ci sono anche i problemi etici tout court, che non sono meno problematico e profondi né vengono affrontati a cuor leggero) da sola, semplicemente progredendo, facendo passi avanti. Se venisse permessa la sperimentazione così come la scienza ritiene di doverla condurre, Piergiorgio Welby forse sarebbe guarito, invece di stare attaccato alle macchine che lo tengono in vita artificialmente. E quindi la scienza avrebbe risolto un problema morale: Welby non avrebbe ragione di chiedere l’eutanasia.
E poi, è anche una questione di metodo. Come possiamo pretendere di porci come esempi di “dialogatori” (ossia, è quello di cui vorremmo convincere l’Islam: quella cattolica è la religione della ragione e del dialogo) se la Binetti si rifiuta di discutere con Capezzone sull’eutanasia, quando entrambi fanno parte di una medesima maggioranza che, per di più, è al governo? Da una parte, diciamo che siamo disposti a dialogare, dall’altra tiriamo fuori i principi inderogabile e irrinunciabili da imporre a tutti senza eccezione e poi ci meravigliamo che c’è chi alza il tiro e proibisce tutto a tutti. E perché no? Abolire i “distinguo” rende tutto più semplice, come insegnava la tanto vituperata e proverbiale Legge del Taglione. Hai rubato? Ti taglio la mano sia se sei già ricco e hai rubato ancora e ancora, sia se sei un morto di fame che ruba una mela la mercato per sopravvivere.
Il meccanismo del proibizionismo è sempre lo stesso: violentare il libero arbitrio altrui per eccesso di protezione e autoprotezione. Non voler distinguere. Non voler discutere. E anche per esercitare un controllo, che non guasta.
L’aspetto medico del problema è quello forse più interessante. Cioè: come facciamo a decidere cosa separa la cura dall’accanimento terapeutico? Scrive giustamente Giuseppe Remuzzi sul Corriere: “chi stabilisce qual è la fine naturale di una vita?”. Lo dovrebbe stabilire la medicina. Cioè la medicina dovrebbe prendersi la responsabilità di dire – senza ideologie - alla politica dove finisce la vita e dove inizia la sopravvivenza e la medicina stessa dovrebbe porsi il limite. E il problema andrebbe rovesciato: dovrebbe essere proibito tenere in vita i morti, soprattutto lì dove tenere in vita i morti impedisce di salvare la vita agli ancora-vivi (ragazzi in pericolo di vita che non trovano posto in ospedale perché ci sono anziani che occupano le rianimazioni a oltranza) e bisognerebbe sorvegliare affinché questo atto così pio (tenere in vita i morti) dovesse mai rivelarsi un modo di sprecare senza utilità il denaro pubblico. Bisogna porsi il problema visto che sappiamo che negli Stati Uniti “il trenta per cento di quello che si spende per la salute serve per gli ultimi sei mesi di vita della gente”. Non devono esserci ombre speculative sulla difesa a oltranza delle sacralità della via in ogni suo istante, ecc. E in questo caso le ombre sono molteplici e il circolo vizioso esiste: non si consente la sperimentazione che potrebbe eliminare tante malattie, i malati rimangono tali, e poi gli si nega di morire e il gioco è fatto.
E poi, una volta che la medicina ha detto il suo parere dovrebbe non solo essere consentito scrivere testamenti biologici ma il fatto che un persona capace di intendere e di volere – come Welby e tanti come lui - chieda di poter mettere fine a una vita che percepisce come non più dignitosa per sé, dovrebbe essere accolto con assoluto rispetto, e non esecrato come una bestemmia.

la depressione come "malattia sociale" e "scandalo della medicina"

La depressione e l'ansia costituiscono un importante problema di salute pubblica, in quanto malattie diffuse ma troppo spesso non diagnosticate e quindi neanche adeguatamente trattate. La Fondazione IDEA fa in modo che più gente possibile ne sia informata e divenga consapevole che i rimedi esistono: ansia e depressione sono un "male oscuro" solo per chi non le conosce.
La depressione può colpire chiunque. Purtroppo, nessuno può considerarsi al riparo. Del resto, basta guardare le statistiche: nel corso dell'esistenza circa 1 donna su 4 e 1 uomo su 10 subiscono almeno un episodio di depressione in senso clinico. Si stima che oggi, in Italia, 5 milioni di persone soffrano di depressione e 3 milioni di persone soffrano di disturbi d'ansia. Eppure, ciascuno di loro si sente solo e ritiene che non esista una via d'uscita. Invece la psichiatria moderna afferma che, con un'adeguata diagnosi e opportuni trattamenti, nell' 80 per cento dei casi si ha una remissione completa o un netto miglioramento dello stato depressivo. Ai farmaci, sempre più efficaci, talvolta va abbinata una psicoterapia. Si tratta, dunque, di rendere operative queste conquiste attraverso l'informazione, rivolta agli operatori del settore e alla gente.
L'intento di IDEA è che diventi normale rivolgersi in tutta tranquillità allo psichiatra e che ogni città disponga di centri specializzati. Gli ostacoli più difficili da superare in questo senso sono senza dubbio l'ignoranza e la disinformazione che generano numerosi pregiudizi. I più comuni: scambiare la malattia per un dramma esistenziale o un problema esclusivamente psicologico, ad esempio, o ritenere che l'unica terapia giusta sia farsi forza e reagire oppure aspettare che passi.
Si può parlare di un vero e proprio "scandalo della medicina". Secondo l’ Organizzazione Mondiale della Sanità sei casi di depressione su dieci non vengono diagnosticati come tali dai medici; e inoltre, solo la metà dei 40 su 100 che vengono identificati come depressi vengono trattati in modo adeguato. E agli altri, che cosa dà il medico? Parole forse, consigli ("esci, scuotiti"), o false rassicurazioni: "passerà". Ma anche a quanti vengono curati spesso non sono prescritte le terapie adeguate, le dosi giuste e per i periodi occorrenti. La conseguenza è che, alla fine, soltanto il 18 per cento dei depressi riceve una terapia appropriata. Una percentuale davvero bassa per una malattia che, per i disagi e disturbi che provoca, è stata classificata equivalente a una malattia cardiaca e più invalidante del diabete, dell'ipertensione, dell'artrite o dei disturbi polmonari.
La depressione è una malattia che comporta un rischio per la vita elevato. Secondo le statistiche, il 15 per cento di coloro che soffrono di disturbi gravi dell'umore e che non seguono una terapia adeguata può arrivare al suicidio. Non va dimenticato un altro prezzo che si paga alla depressione: è il suo costo economico e sociale fatto di giornate di lavoro perse a causa del disturbo, veramente invalidante, e delle sue conseguenze sulle relazioni interpersonali, delle sofferenze dei nuclei familiari, degli atti auto-lesivi.
In Italia, è stato stimato un costo socio-economico intorno ai 5.000 miliardi di euro in un anno.
Per aumentare la consapevolezza sul problema della depressione e dei disturbi d'ansia, IDEA conduce un'attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica riguardo la gravità della depressione e la possibilità di guarire cercando di creare una coscienza sociale intorno al problema, per liberare così le persone depresse dai sentimenti di colpa provati nei confronti di una malinconia che è invalidante ma che spesso essi vivono come propria incapacità a reagire.
IDEA favorisce perciò la prevenzione e la diagnosi precoce attraverso corsi di informazione alle varie categorie professionali a contatto con i giovani, organizzando, tramite il "Progetto scuola", corsi nelle scuole per docenti, discenti e genitori per far comprendere che un problema d'ansia e di depressione non riconosciuto negli adolescenti può portare alla tossicodipendenza. IDEA prevede di portare anche nelle carceri il proprio aiuto (nelle quali c'è una percentuale di condannati che sono stati portati a commettere atti illegali in conseguenza della loro patologia dell’umore, oppure che hanno sviluppato una depressione in concomitanza con il regime carcerario) e di portare avanti un progetto mirato allo studio e al trattamento dei disturbi dell'umore nelle donne - visto che la maggior parte delle persone che soffrono di depressione sono, appunto, donne - come la depressione post partum e i problemi legati all'insorgere della menopausa.
Il Comitato Scientifico di IDEA stimola l'aggiornamento dei medici di medicina generale e dei giovani psichiatri finanziandolo con propri fondi e premia le ricerche più promettenti e direttamente finalizzate alla cura del paziente favorendo e sostenendo quei temi di ricerca (sul rapporto tra la depressione e il rischio di tossicodipendenza, ad esempio, o sulla tollerabilità dei farmaci) che possono consentire un immediato aiuto al malato.
IDEA è strutturata in “comitati” territoriali coordinati da un responsabile, da un referente scientifico (psichiatra) e da un supervisore dei Gruppi di Auto Aiuto. Vi sono poi i volontari; alcuni di loro rispondono al "telefono amico", altri, mediante opportuni corsi di formazione, assumono il compito di coordinare a guidare la conversazione all'interno dei Gruppi di Auto Aiuto, che si basano sul principio della solidarietà e del supporto emotivo. Per entrare nei Gruppi di Auto Aiuto, in seguito alla telefonata, si fissa un colloquio e si risponde a un questionario. Le risposte al questionario vengono quindi valutate da una equipe scientifica di consulenti (psichiatri e psicoterapeuti) i quali devono stabilire se l'attività dei Gruppi è in quel momento adatta alle condizioni del richiedente/paziente. I GAA si incontrano settimanalmente, sono coordinati da due facilitatori e composti al massimo da una ventina di fruitori; a volte, ci si incontra anche a scopo ricreativo, per stimolare verso attività piacevoli chi stesse passando un periodo di isolamento particolarmente grave.
Per fare in modo che un'iniziativa così importante si realizzi, occorrono adeguati mezzi finanziari. IDEA raccoglie i fondi che le consentono di funzionare sia tramite proprie iniziative di found raising (tornei di burraco, vendita di uova di Pasqua, ecc.), sia tramite una quota associativa versata dai volontari sia, dal 2006, tramite la raccolta del cinque per mille. A volte riceve delle donazioni bancarie, a volte aiuti e facilitazioni da parte delle Istituzioni nel caso dell'organizzazione dei suoi corsi di formazione.
Sono questi fondi che consentono a IDEA di: stampare e inviare a chiunque
IDEANOTIZIE, il trimestrale di informazione che contiene aggiornamenti scientifici, testimonianze e informazioni sulle attività dell'Associazione; creare opuscoli-guida utili per il paziente e per la sua famiglia; inviare materiale informativo a chiunque ne faccia richiesta; organizzare i corsi di formazione per i facilitatori dei Gruppi di Auto Aiuto; favorire corsi di formazione per giovani psichiatri che operano nelle strutture pubbliche e di varie altre categorie professionali che operano a contatto con i giovani, nonché corsi di aggiornamento per medici di base; istituire borse di studio per giovani specializzandi o ricercatori; assegnare premi per le ricerche più interessanti.
Nei tredici anni della sua esistenza, IDEA ha realizzato molto ricevendo anche importanti incoraggiamenti e riconoscimenti da parte istituzionale: fa parte della Consulta Nazionale che elargisce pareri alle Commissioni parlamentari che redigono le leggi sulla salute mentale, è regolarmente invitata alla Giornata nazionale della salute mentale che si svolge ogni anno il 5 dicembre; è ora entrata in un programma sperimentale coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità volto a valutare e incentivare l'efficacia dell'azione dei Gruppi di Auto Aiuto.
Ma ha bisogno di sedi adeguate, che non siano scuole e soggette ai ritmi scolastici (e quindi alla chiusura pomeridiana, che sfavorisce chi lavora, o le chiusure estive e quelle dovute alle vacanze, periodi in cui peraltro, chi soffre di depressione spesso si aggrava perché si ritrova ancora più solo); ha bisogno di aumentare la propria attività e quindi formare un maggior numero di volontari e di diffondersi sempre più capillarmente sul territorio, in modo da facilitare la frequentazione da parte di persone sofferenti che spesso esitano a uscire e ad allontanarsi troppo da casa.
Ha quindi bisogno di farsi conoscere, di continuare ad avere la forza economica e le opportunità istituzionali di continuare a formare e informare e portare avanti i propri scopi perché i tanti che hanno bisogno di aiuto sappiano che l'aiuto c'è, e non si sentano finalmente più soli. Per questo desidera e accoglie la collaborazione e l'aiuto di quanti riconoscano la bontà della sua funzione e ne condividano le finalità.