lunedì 5 febbraio 2007

eutanasia e dintorni

Certe volte viene da pensare che non deve essere facile sostenere l’insostenibile anche a costo di contraddirsi, come fanno, persuasi di essere coerenti, i cattolici a oltranza. Prendo spunto dalla vicenda di Piergiorgio Welby, che chiede di poter mettere fine legalmente alla propria vita, che continua – per dirla con le sue parole - solo grazie a un “testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”. E quindi non è vita, ma sopravvivenza di un organismo biologico senza futuro né speranza, durata senza partecipazione morale, senza consenso. E’ evidente che chi si rifiuta di discutere sull’opportunità di accogliere la domanda di Welby rivolta al presidente Napolitano lo fa per ribadire ciecamente un principio: la vita è sacra. Per questa ideologia, la vita, in quanto sacra, non appartiene al vivente, ma lo trascende. Il fatto è che le scelte morali e quindi l’osservanza dei dettami fideistici devono essere atti coscienti di libero arbitrio del singolo credente, oppure non hanno valore. E quindi: come la mettiamo? Se il fedele, tra le tante possibilità che la vita gli offre, sceglie di seguire attentamente i dettami della sua religione, le sue scelte hanno un valore che può anche configurarsi come “eroico”. Se la scelta invece è obbligata per tutti, indistintamente, dov’è la superiorità del credente rispetto al non credente? Cioè, sembra assurdo doverlo ancora ripetere, ma come si fa ancora a pensare che la vita civile italiana debba essere modellata sui dettami della Chiesa cattolica? Comunque, prendiamo atto c’è chi non vuole sentir parlar e di eutanasia, non vuole sentir parlare di sperimentazione sulle cellule staminali, non vuole sentir parlare di aborto; costoro dovrebbero rendersi conto intanto che la scienza – se lasciata in pace – riesce a risolvere i problemi etici/religiosi (perché ci sono anche i problemi etici tout court, che non sono meno problematico e profondi né vengono affrontati a cuor leggero) da sola, semplicemente progredendo, facendo passi avanti. Se venisse permessa la sperimentazione così come la scienza ritiene di doverla condurre, Piergiorgio Welby forse sarebbe guarito, invece di stare attaccato alle macchine che lo tengono in vita artificialmente. E quindi la scienza avrebbe risolto un problema morale: Welby non avrebbe ragione di chiedere l’eutanasia.
E poi, è anche una questione di metodo. Come possiamo pretendere di porci come esempi di “dialogatori” (ossia, è quello di cui vorremmo convincere l’Islam: quella cattolica è la religione della ragione e del dialogo) se la Binetti si rifiuta di discutere con Capezzone sull’eutanasia, quando entrambi fanno parte di una medesima maggioranza che, per di più, è al governo? Da una parte, diciamo che siamo disposti a dialogare, dall’altra tiriamo fuori i principi inderogabile e irrinunciabili da imporre a tutti senza eccezione e poi ci meravigliamo che c’è chi alza il tiro e proibisce tutto a tutti. E perché no? Abolire i “distinguo” rende tutto più semplice, come insegnava la tanto vituperata e proverbiale Legge del Taglione. Hai rubato? Ti taglio la mano sia se sei già ricco e hai rubato ancora e ancora, sia se sei un morto di fame che ruba una mela la mercato per sopravvivere.
Il meccanismo del proibizionismo è sempre lo stesso: violentare il libero arbitrio altrui per eccesso di protezione e autoprotezione. Non voler distinguere. Non voler discutere. E anche per esercitare un controllo, che non guasta.
L’aspetto medico del problema è quello forse più interessante. Cioè: come facciamo a decidere cosa separa la cura dall’accanimento terapeutico? Scrive giustamente Giuseppe Remuzzi sul Corriere: “chi stabilisce qual è la fine naturale di una vita?”. Lo dovrebbe stabilire la medicina. Cioè la medicina dovrebbe prendersi la responsabilità di dire – senza ideologie - alla politica dove finisce la vita e dove inizia la sopravvivenza e la medicina stessa dovrebbe porsi il limite. E il problema andrebbe rovesciato: dovrebbe essere proibito tenere in vita i morti, soprattutto lì dove tenere in vita i morti impedisce di salvare la vita agli ancora-vivi (ragazzi in pericolo di vita che non trovano posto in ospedale perché ci sono anziani che occupano le rianimazioni a oltranza) e bisognerebbe sorvegliare affinché questo atto così pio (tenere in vita i morti) dovesse mai rivelarsi un modo di sprecare senza utilità il denaro pubblico. Bisogna porsi il problema visto che sappiamo che negli Stati Uniti “il trenta per cento di quello che si spende per la salute serve per gli ultimi sei mesi di vita della gente”. Non devono esserci ombre speculative sulla difesa a oltranza delle sacralità della via in ogni suo istante, ecc. E in questo caso le ombre sono molteplici e il circolo vizioso esiste: non si consente la sperimentazione che potrebbe eliminare tante malattie, i malati rimangono tali, e poi gli si nega di morire e il gioco è fatto.
E poi, una volta che la medicina ha detto il suo parere dovrebbe non solo essere consentito scrivere testamenti biologici ma il fatto che un persona capace di intendere e di volere – come Welby e tanti come lui - chieda di poter mettere fine a una vita che percepisce come non più dignitosa per sé, dovrebbe essere accolto con assoluto rispetto, e non esecrato come una bestemmia.

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