lunedì 5 febbraio 2007

Parafrasando Shakespeare

Quando, a giugno 2006, Nicola Rossi fece una proposta semplicissima e praticamente indolore per cercare di diminuire la spesa pubblica (e dare quindi un minimo di dignità e credibilità a una finanziaria che aumentava le tasse) ebbe immediatamente il plauso di Francesco Gavazzi, che si congratulò con lui dalle pagine del Corriere, uno dei grandi sponsor (pentito?) di questo governo. Infatti, Rossi proponeva semplicemente di mandare in pensione anticipata 100 mila dipendenti pubblici (su tre milioni e mezzo di persone) e sostituirne due su dieci con nuovi assunti giovani. Motivazione: poiché una pensione costa allo Stato il 65 per cento del salario di un dipendente pubblico, si sarebbe risparmiato sia se gli assunti fossero stati tre su dieci che seci fosse stato un solo nuovo assunto, ma tanto bravo da dover essere pagato il doppio. Non si può mandare forzatamente in pensione un dipendente pubblico (anche se lo stipendio, di fatto, lo ruba, anche se sta lì a scaldare il banco e in trent’anni di lavoro non ha neanche imparato a usare il computer – basta a farsi un giretto in qualche uffici pubblico e se ne trovano quanti se ne vuole di “lavoratori” del genere, soprattutto tra gli oramai dirigenti, assunti con concorsi che non chiedevano neanche di saper scrivere a macchina perché allora si dettava alle segretarie) ma, visto il risparmio e la spirale virtuosa che il meccanismo indicato da Rossi innescava, si potevano ben studiare degli incentivi per motivare 100 mila o più dipendenti pubblici a accettare il pensionamento. O comunque si poteva dare a Rossi la possibilità di realizzare questa sua idea semplice e rivoluzionaria (le vere idee sono tutte semplice e rivoluzionarie) se non altro dandogli un posto al governo. Invece Rossi non è stato incluso nella compagine di governo. Così, varata la finanziaria, ha affidato alle pagine dell’ultimo numero del 2006 della rivista “il Mulino” il suo grido di dolore, intitolato “L’inverno del nostro scontento”. Parafrasando Shakespeare. E se lo può permettere perché scrive veramente bene, Nicola Rossi. E poi, pochi giorni fa, è uscito da Ds. Un altro riformista che lascia il partito di D’Alema.
Insomma, in che consiste il suo grido di dolore? La finanziaria 2007 non ha una mission (“la mission è una dichiarazione di intenti a cui ci si ispira per definire i propri obiettivi e successivamente la strategia, con particolare riguardo al proprio posizionamento, definendo di conseguenza la propria impostazione strategica, ecc….”). “Non contiene un’immagine del futuro che renda accettabili i sacrifici attuali e che dia loro un senso compiuto” (ve l’avevo detto che Rossi sa scrivere). Facile, diciamo noi, basta farlo apposta. Basta non mettercela, questa immagine del futuro. E’ il segreto di chi naviga a vista, e D’Alema, che va in barca a vela, lo sa molto bene. Basta non mettercela, perché visto che l’immagine del futuro di Rutelli, D’Alema, Mastella, Diliberto, ecc. non coincide, non la si poteva mettere nella finanziaria. La quale quindi, priva di mission, rimane solo con uno scopo: quello di fare cassa per non dover fare le riforme e per non tagliare la spesa pubblica. Fare cassa per distribuire il denaro prelevato dalle tasche degli italiani per compensare in tutti i modi possibili il nocciolo duro di chi garantisce i voti alla sinistra. Come, ad esempio, gli insegnanti della scuola pubblica. Cos’è infatti una delle prime cose che ha fatto Fioroni? Ripristinare le commissioni esterne dell’esame di maturità. Invece di tendere all’Europa, abolendo del tutto il valore legale dell’esame di maturità (e anche dei titoli intermedi: ho conosciuto un rumeno il quale, nonostante avesse frequentato liceo e università e conoscesse quattro lingue, lavorava in un cantiere edile perché i suoi titoli di studio in Italia lo facevano equivalere a un analfabeta: per quanto tempo ancora pensiamo di andare avanti con questi trucchetti?), ha ripristinato questo obolo patetico che la Moratti aveva tentato di eliminare. Ma gli insegnanti pubblici, terrorizzati dalla Moratti, determinanti per la vittoria di Prodi, andavano ricompensati. E tanto paghiamo noi, mica pagano Prodi o Fioroni. E poi i ladri sono gli evasori fiscali. E su questo, proprio su questo, Nicola Rossi diventa il nostro eroe: “Tanto il mancato rispetto degli obblighi fiscali e contributivi quanto la mancata o parziale fornitura dei servizi pubblici dovrebbero essere considerati – com’è implicito nel dettato costituzionale – come gravi violazioni del patto su cui si regge una comunità e come tali contrastati e perseguiti senza eccezione”, scrive. Contrastati e perseguiti. Perché violano la Costituzione. Ma chi li dovrebbe contrastare e punire? Appunto, ci vorrebbe qualcuno che stabilisse parametri, violazioni, sanzioni. Cioè qualcuno che facesse le riforme, chiamando tutti alle proprie responsabilità. Non è che si può andare dal magistrato ogni volta che arriva una multa sbagliata: se cominciamo a farli pagare quando sbagliano, le multe sbagliate non arriveranno più. I dipendenti pubblici, che campano con i soldi delle tasse di chi lavora, dovrebbero essere valutabili (altro problema che da Bassanini a Frattini in poi non è mai stato risolto): se lavorano bene, quei soldi glieli diamo volentieri, ma se lavorano male, vogliamo che vadano a casa. Non ha senso che, in un mondo lavorativo massicciamente basato sul precariato, resistano delle categorie protette, inamovibili e tanto numerose (tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici e famiglie, più tutto l’indotto sindacale e famiglie) da poter decidere chi va al governo chiedendogli, poi, di conservare la situazione esistente, che conviene solo a loro. Sennò, poi bisogna ricominciare a riflettere su “cosa” sia il conflitto di interessi.

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